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Abbiamo pensato di tradurre in parole cosa accade e cosa desideriamo quando incontriamo un paziente che inizia un percorso. Cosa vogliamo? Se dovessimo usare una parola sola, diremmo: il futuro, il che è
bizzarro, perché si pensa sempre allo psicologo che ti sdraia sul lettino e ti fa ricordare cose di quando eri molto piccolo.
Andiamo con ordine. Vogliamo poter ascoltare, senza dubbio siamo curiose e per farlo, cerchiamo di non agitarci troppo e di aspettare, in silenzio. E intanto lavoriamo, perché cresca la fiducia. Parola semplice e infinita, che rimanda ad altre parole, come consenso, cooperazione, solidarietà, patto… una parola ne richiama altre.
La fiducia, dice il sociologo Antonio Mutti, è un’aspettativa di esperienze positive: ci aspettiamo qualcosa di buono dall’altro, ma non ne siamo certi; tuttavia, ciò che sappiamo e sentiamo non è una speranza cieca perché abbiamo analizzato costi e benefici, abbiamo provato a prevedere il futuro e abbiamo deciso di provare a camminare insieme.
Guardando alla vita quotidiana, ci fidiamo continuamente: un bambino non può esistere e crescere se non fidandosi, della mamma, del papà, del maestro, dell’amico, nonostante il fatto che non siano sempre, alla lettera, affidabili. A pensarci bene, in questo momento non temiamo che nostra madre voglia avvelenarci, non abbiamo paura che l’autista del nostro bus decida proprio ora di farla finita, non rifiutiamo il resto in denaro del commerciante. È paradossale: dobbiamo fidarci continuamente degli altri e insieme dobbiamo farlo con attenzione.
E allora ci proviamo, ci avviciniamo ad uno sconosciuto e ci mettiamo nelle sue mani, affrontiamo un rischio ma gli chiediamo di essere vero. Abbiamo a che fare con la verità, dunque. Non abbiamo altro interesse che non sia la comprensione, o la tolleranza dell’incomprensione. Perché si può stare insieme anche senza capire tutto.
E nell’affidarci, speriamo che non manipolerà la comunicazione, che sarà autentico e giusto, sincero e credibile, trasparente e rispettoso, e non ci ingannerà. Quasi sembra una questione di fedeltà, però fedeltà e fiducia non sono sinonimi: la fiducia è più piccola, mentre la fedeltà è radicale come l’amicizia, più anche dell’amore, perché richiede cura e custodia, promessa di non abbandono, di coltivazione,
dedizione e responsabilità. L’amicizia vera è un impegno per sempre, dona tranquillità perché scopre quanto si è importanti l’uno per l’altro, in modo reciproco, equo anche se non uguale. Quando si dà fiducia e si chiede fedeltà, si spera di non essere delusi e traditi… come già è successo in passato con altre
persone care. La fiducia è sempre una questione di relazione. Ecco, ci interessano le relazioni. E le relazioni nelle nostre stanze riguardano sempre relazioni con parti sciocche, buffone, stupide, ignoranti, le parti che si vergognano, che non se ne vanno troppo in giro senza essere accompagnate o controllate, che si sentono in colpa perché sono sbagliate, che non vengono ascoltate e allora si arrabbiano, distruggono o
peggio, piangono e si isolano. Se è una questione di relazione, perché fiducia è un sostantivo plurale, cerchiamo di opporci alla solitudine, perché quando si ha paura, ci si chiude nel proprio dolore, si pensa che nessuno possa capire. “Ha tradito la mia fiducia”, “Non posso più fidarmi dopo quello che ha fatto”,
“Meglio stare attenti che rimanere delusi” ci dicono in terapia. Abbiamo fiducia delle persone che ci trattano bene, come vogliamo o pensiamo che dobbiamo esser trattati e quando quella persona ci sorprende negativamente, allora ci sentiamo feriti, e iniziamo a stare attenti nei confronti di tutti, perché non vogliamo più sentire quella sofferenza, che ora può nascondersi dietro ogni angolo… fino a
quando non andiamo in terapia.
Nel nostro studio lavoriamo per non permettere a nessuno di rimanere bloccato nel passato e poi per conoscere qualcosa di nuovo. È fiducia nella propria capacità di affrontare un’esperienza negativa e di elaborarla, di poter affrontare tutte le esperienze senza temere di essere distrutti o sopraffatti da alcune di esse. È conoscere la propria vulnerabilità e non importa, è non pretendere più che l’altro cambi solo perché ci fa arrabbiare, è spostarci se stiamo scomodi. È la chiarezza che ci consente di aprirci quando ci sentiamo al sicuro e accolti e chiuderci quando la situazione lo richiede. Lavoriamo perché ciascuno possa a suo modo avere fiducia in sé stesso, come risultato di un percorso fatto di dialogo e di confronto continui, in cui si porta allo scoperto una parte di sé al fine di arricchirla grazie all’incontro autentico con l’altro.
Elena Garritano e Daniela Meschieri

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