Nella settimana in cui Giulia Cecchettin è stata trovata senza vita, tutt* * pazienti hanno parlato di com’è fatta la violenza e del tempo necessario per superarla. Loro hanno ancora tempo.
Presente
La violenza è fatta di silenzio: sembra che non ci siano parole per raccontarla.
“Sono fiera di me stavolta, perché con questo ragazzo sono stata esplicita e la cosa curiosa è che nel dirgli che lo volevo solo come amico, lui ha risposto ‘va bene’, cioè, nessuna rappresaglia, capisce?… però ho la sensazione che lei ora mi smonterà questa soddisfazione.”
“Avrà una rappresaglia, allora, da parte mia?”
Da dove viene questa sensazione di non poter dire quello che prova per tenere a bada la vendetta dell’altro? Ricorda il suo primo ragazzo: ora in stanza con noi si fa largo un tipo geloso, duro, violento. Ci urta la sua prepotenza, gli sembra così legittima, d’altronde nessuno si era accorto del suo atteggiamento, nemmeno le persone più vicine. Lei stessa non glielo ha mai rimproverato, eppure lo ha lasciato per telefono, perché aveva paura delle sue reazioni e da allora lui ha continuato a invadere spazi di libertà, visto che lei è rimasta sola o in silenzio negli anni dell’università e del lavoro.
Sarà molto doloroso lo sforzo di trovare delle parole per raccontare ma le inventeremo insieme. Dobbiamo recuperare del tempo.
La violenza è fatta di confusione: uno stesso gesto viene travisato, frainteso, le proprie sensazioni vengono disconfermate, la manipolazione instupidisce, la propria identità non ha più confini.
“… dico le stesse frasi d’amore di Turetta, potrei diventare anche io violento? Come si fa a sapere se farò del male? Io non voglio: ho paura.”
Chi lo sa cosa succederà. Io so solo che lui ha immaginato di farsi del male e che sa voler bene a chi gli fa del male, senza difendersi dall’umiliazione, dalla svalutazione o dalla manipolazione. La violenza spesso è subdola e indiretta. Ci toccherà lavorare per allontanare l’aria inquinata e schiarirci le idee, ma batteremo il tempo.
Passato
La violenza è fatta di mancanza di rispetto, anche in modo insospettabile. Ad esempio, quando si cerca di capire, si finisce per trasformare tutti in bambini, si parla degli insegnamenti in famiglia, si risale indietro nelle generazioni, talvolta è così ed è utile, ma non sempre è così. Talvolta è inutile.
“La frequentavo perché mi piaceva ma senza impegno, poi quando ha avuto dei problemi, l’ho aiutata, anche troppo, perché mi sembrava di essere io il colpevole”. Non lo era, ma era cresciuto abituato a subire la violenza altrui. Così ha provato a porvi rimedio ma non bastava mai quello che faceva, non bastava mai quello che era. Era tutto inutile perché lui era un testimone e purtroppo si è creduto complice.
“Tutto quello che riguardava papà era spaventoso, mamma dice che non sapeva, io credo che mi abbia sacrificata per mettersi in salvo… A quanto pare anche tutto quello che riguardava mamma era spaventoso.” Per entrambi resta se non la colpa, la responsabilità: la terapia non è mai un processo, ma un luogo di cura, non si cerca giustizia ma pace. Il tempo passa prima o poi.
Futuro
A che serve tornare indietro quando violenza è fatta di traumi? Ci sono eventi imprevisti che strappano la quotidianità. Capita, non è stato cercato: un branco invade e un’esplosione riduce in macerie. Può succedere a chiunque, indipendentemente dal livello culturale o economico, ma è più facile a chi ha meno diritti fin dall’inizio, a chi è visto di meno perché la violenza ha a che fare con l’esercizio del potere e con questo potere, mortifica e uccide.
“Volevo che mi apprezzassero”, ammetteva. Pure la violenza te la devi meritare e a lei dicevano che era brutta ed era una condanna. Non lo era. Non lo sapeva.
“Era mio amico, ma non ho sentito di poterlo fermare. E quando l’ho raccontato, le mie amiche hanno detto ‘anche a me è successo’.”. Era davvero bella ed era una condanna. Lo era. Lo sapeva.
Ecco.
Sono solo voci, non sapete se inventate o quanto modificate nel genere o nelle parole, ma sono vere e ci appartengono. * La memoria dona tempo perché chi non c’è più possa salvare chi potrebbe non esserci domani. Le parole de* pazienti si appoggiano al racconto di chi non ce l’ha fatta ma dal mio punto di vista anche di chi ce l’ha fatta nonostante tutto. Le ultime due testimonianze sono ad esempio il ricordo di storie di tanti anni fa: posso raccontare com’è andata a finire.
“Una prof mi ha detto che sono ancora in tempo per denunciare. Non lo farò ma ora posso andare avanti.” É bastata una risposta diversa da quella delle sue amiche. Una sola. Non una di meno.
“Li ho visti con l’avvocato. Quelli mi hanno detto che sono cresciuta”. Non mi ha mai raccontato delle violenze subite da quelli, mi ha sempre parlato di lei. C’è tutta una retorica patetica sulla identità della vittima. Un esempio per tutti: imporre alla vittima il nome fittizio di un fiore nasconde il ruolo perenne da vegetale. Me lo ha insegnato lei, che è sempre stata molto di più di una vittima: è stata una persona intera nonostante le mutilazioni. Non meno di una.
Penso che il lavoro di terapia sia come aprire la bottiglia che si lascia in acqua con un messaggio. È una cosa che si tiene a galla nell’angoscia e risuona vuota. Ce ne stiamo per mesi in balia della confusione del presente, con una logica diversa dal rapporto causale, perché riconosciamo che esser innocenti non libera dal senso di condanna.
Nel ripercorrere delle vicende dolorose, nel riconoscere sentimenti ambivalenti o trovare parole a vissuti senza forma, capita che il proprio messaggio sia davvero lasciato andare in mare e trovato da qualcun*. Allora si alza il tappo della bottiglia e si apre il foglio. È sbiadito oramai, ma cambia poco, perché comunque rintraccia una presenza. Al di là dell’oceano dei ricordi e dei non ricordi, c’è qualcun* che si è perso e chiede di essere trovat* per continuare a crescere. Può essere imbrigliat* in un pensiero, lacerat* in un sentimento, ferm* in attesa dei soccorsi per un famigliare ferito, ma è ancora viv*. Per fortuna ha viaggiato nel tempo.
* Una, ad esempio, potrebbe anche essere mia.
Testo inviato al Concorso indetto dal CNOP “Le parole per raccontarla”, istituito dal Comitato Pari Opportunità.